domenica 16 settembre 2007

Oggi, giorno di festa

Due articoli già pubblicati. Uno che potete leggervi, l'altro su Mantova e il suo festival della letteratura.

Continuo a credere che il mio futuro sia sulla carta stampata. O comunque che possa rivelarsi nel settore giornalistico più che in qualsiasi altro ramo dello scibile umano.

Provo a scrivere un articolo sul Milano Film Festival, arrivato oramai alla sua 12 edizione. Spero che Andrea Lessona possa considerarsi felice del mio contributo.

sabato 15 settembre 2007

Traguardi...poco lontani

Un piccolo lavoro, una piccola "casa editrice" che si occupa di tutto ciò che mi è più lontano.. Sarà il destino a farmi stare sempre in posti che, più di tanto, non mi dicono molto.

Uno Stage, sei mesi di lavoro, duro lavoro, come fosse uno vero...che vero non è.

Non importa come sarà, non importa che farò. L'importante, come si dice sempre, è accumulare crediti e abilità. Mi sento di riuscire, ma so che sarà un pensiero che andrà poco lontano.

Notte

giovedì 13 settembre 2007

Aggiungo ora....

Aggiungo ora il mio primo pezzo pubblicato... ringrazio il sito www.ilreporter.com per avermi dato questa opportunità e per aver creduto in me e nel mio stile.

Una signora distinta, sulla settantina, grande fumatrice e affabulatrice al punto giusto da farmi rimanere seduto ad ascoltarla per più di due ore. Un’intervista, la mia, che comincia dai suoi primi passi tra i bisturi e i “ferri” dell’Ospedale Corberi.
Il suo nome è Angela C., capo infermiera tra gli anni ’60 e ’70, del reparto Depressione e Alcolismo dell’ex Ospedale Psichiatrico Antonini di Mombello, frazione di Limbiate. Un comune della provincia milanese. I primi minuti che passo con Angela, mi fanno pensare ad una guida turistica in pensione, ma lei, che guida turistica non è, ha passato più di vent’anni come capo infermiera presso l’Ex Ospedale. Ne ha vissute tante tra quelle mura e il suo racconto sa di lontano, di una storia che si intreccia con quella più ampia della villa Crivelli e di un presente che la rattrista enormemente.

Si ricorda dell’Antonini come di una vera e propria comunità che comprendeva più di tremila persone tra pazienti e dipendenti. “Un gruppo di persone molto diverse, che includeva soprattutto, malati affetti da arteriosclerosi, depressione, schizofrenia e alcolismo”.
La sua memoria, fin dall’inizio della nostra chiacchierata, riporta alle docce ghiacciate che gli ubriachi erano costretti a subire per smaltire velocemente la sbornia. Me ne descrive un paio.
“Personaggi strani. Uomini e donne senza meta con in mano bottiglie di vino, strappati a forza dai loro luoghi di perdizioni e portati all’Antonini sui cellulari della Polizia”. “Il mio reparto, che ospitava depressi e alcolisti, prevedeva per i primi cinque sedute di elettroshock. Era la prassi perché venissero sbloccati mentalmente. I problemi di alcolismo, invece, seguivano altri percorsi a cominciare dalle docce ghiacciate. Non ricordo di aver mai visto indossare camicie di forza ma in alcuni casi, gli alcolizzati che venivano portati dalle Forze dell’Ordine, venivano legati a letto finché il valium non faceva il suo effetto. Erano scene forti”.

Lavorare all’Antonini significava entrare in contatto con persone maltrattate e mal capite, disperati di ogni sorta, persone ingenue, adulti solo anagrafici ma che, molto spesso, si comportavano come bambini. Forza di volontà e sangue freddo dovevano essere i requisiti essenziali.
“Non ci vieni a lavorare all’Antonini se credi che il tuo compito sia quello di prelevare il sangue e fare due perette al giorno a qualche vecchietto. Devi avere polso e carattere”.
”Avevo fatto esperienza al Corberi ma lavorare all’Antonini aveva un altro significato. Il rapporto tra te e il paziente era molto più stretto. Bisognava essere costantemente a contatto con i malati. Dovevi seguirli continuamente, come una madre, che si trattasse di alcolisti o schizofrenici. In certe occasioni era sfiancante e molto spesso capitava che si arrivasse anche alle botte”.

E quando non erano le botte a presenziare al banchetto della pazzia, vi erano coltelli e bottiglie di vetro. Schizofrenici e personale ospedaliero erano, solitamente, i protagonisti di queste querelle sui generis. Uomini e donne smarrite, personalità che avevano perso il lume della ragione o che, semplicemente, mi viene da pensare, si erano avvicinati così tanto al concetto di Verità da perdercisi dentro.
“Mi ricordo di diverse rivolte scoppiate tra alcuni pazienti affetti da schizofrenia e i miei colleghi. Una di queste è stata sfregiata con un coltello della mensa. Una rivolta scoppiata per caso, finita nel peggiore dei modi. Il caso specifico non lo ricordo ma solitamente capitava che dalla normale tranquillità si passasse, in un attimo, al caos più esagerato.
Quasi sempre erano i maschi i capi rivoltosi che cominciavano a gridare parole senza senso. Non si capiva perché lo facessero e da cosa nascesse questa isteria prima individuale e poi collettiva. Certo è che faceva paura se non si era abituati. E soprattutto era pericoloso se non riuscivi a sedare, fin da subito, la rivolta”.
“Avevamo un unico metodo per reprimere questa specie di sollevazione popolare: bloccare i capi rivoltosi, che erano diversi ogni volta, e portarli con la forza in Infermeria. Capitava che ci si facesse male e che si arrivasse alle mani”.
“Era così, inutile negarlo. Non si poteva trattare con i pazienti; non erano degenti normali, erano persone con seri problemi psicologici, mentali e comportamentali. Dovevi renderti conto che entrare all’Antonini significava abbandonare la normalità e vivere un altro stile di vita. Un’esperienza enorme, stimolante e forte al tempo stesso”.
La pratica dell’elettroshock, mi spiega Angela con una precisione maniacale, avveniva a rivolta sedata, dopo diverse iniezioni di curaro che servivano ad irrigidire i muscoli del corpo ad esclusione del cuore. Un macchinario, a cui erano collegate le tempie del paziente tramite due tamponi, forniva una scossa della durata di qualche frazione di secondo.
“Poche volte il paziente riprendeva conoscenza subito e guai a concedergli un bicchiere d’acqua. Il corpo, carico elettricamente, avrebbe cominciato a ustionarsi all’interno al solo contatto con i liquidi ingeriti”.

Abbandono questo discorso e le chiedo quale morale abbia tratto dalla sua esperienza. Gli occhi di Angela si fanno ora più lucidi e la sua risposta ha il sapore di un monito. Probabilmente il ricordo di una vita passata all’inferno l’ha segnata tanto come donna quanto come madre. “L’Ospedale Psichiatrico Antonini è stata una palestra, mi ha insegnato tanto. Ho imparato ad apprezzare la vita così com’è. Come ti viene data. Farsi coraggio e pensare che si possa crescere anche a fronte di malattie come queste. Alcuni dei miei pazienti sono usciti dall’Ospedale e hanno ripreso a vivere anche al di fuori di questo Istituto”. “Forse la chiusura degli Ospedali Psichiatrici è stata sbagliata. Molte malattie mentali esistono ancora ma non hanno più luoghi di cura idonei, creano grossi problemi alle famiglie dei malati, a loro stessi e alla società. Lo stile e il ritmo della vita di oggi mal si concilia con malattie di questo tipo. E capita spesso che i parenti dei malati siano costretti a lasciare il lavoro pur di accudire il malato”.

Piccoli coltivatori in erba.

Mi sono cimentato circa tre settimane fa nel tentativo di diventare Giornalista Pubblicista. Apro ora questo Blog, senza arte ne parte...

Provvederò in futuro a coltivarne lo spirito e le emozioni. Ora chiudo e vedrò, successivamente, cosa si può fare.